Ma da questa operazione si deve generare un utile che sia tale almeno da coprire i costi di produzione e da consentire una nuova edizione.
Ma come nasce tutto questo?
Per tutta una lunga fase, a rivestire il ruolo di editore era il mecenate. Certo si tratta di una figura molto diversa dall’editore moderno, che oggi spazia da un medium all’altro. Il mecenate si occupava di finanziare un’edizione, e molto raramente è un erudito in grado di entrare nel merito del testo. Il suo intervento mette l’intellettuale nella condizione di poter finanziare la stampa del proprio testo presso il tipografo.
Ma qual era il tornaconto del mecenate? Non certo economico. Era di solito un aristocratico che non aveva alcun bisogno di guadagnarsi da vivere. Ciò che otteneva in cambio del denaro era una merce rara: benemerenza culturale. Nello spazio della dedica, infatti, l’autore cantava le lodi di colui il quale aveva reso possibile l’edizione, esaltandone l’ampiezza di vedute e la cultura enciclopedica – poco importava che nulla di tutto questo era vero, e che il benefattore fosse a mala pena in grado di leggere e scrivere.
L’autore otteneva quel che voleva, cioè la possibilità di stampare, farsi conoscere, guadagnare qualcosa; il mecenate ne ricavava benemerenza culturale, esibendo la copia con dedica nelle grandi serate a corte. E la macchina dell’editoria andava avanti, mentre sotto i torchi si stampava un libro dopo l’altro.
È un rapporto complesso, quello tra l’intellettuale affamato di pane e sapere e l’aristocratico ingrassato nell’ozio, ma che bisogna tener presente per capire la storia dell’editoria sin dalla sua fase aurorale. La follia di Tasso è forse l’emblema di questa sottomissione – quasi una prostituzione culturale. Ma forse è proprio lì che si manifesta in maniera più eclatante una grande e ineliminabile verità del mondo editoriale: il libro è innanzitutto un oggetto economico.