Foglio bianco, pagina uno, prime righe, in una parola: Incipit. In questo spazio così ristretto si gioca il futuro di chi si appresta a scrivere un libro. Centinaia di pagine rischiano di non arrivare mai ai lettori, se quelle parole non riescono nel loro intento. Se l’incipit non funziona, il romanzo tornerà pericolosamente nello scaffale, e neppure la sua struttura muscolosa lo salverà – prima o poi il libraio lo impacchetterà per renderlo alla casa editrice.
Ne parlano da mesi. Sui giornali si inseguono indiscrezioni e anticipazioni. Ma oggi è il grande giorno: il libro che tutti aspettavano è in libreria, con la sua bella copertina accattivante, sistemato in colonne imponenti. Possiamo finalmente sfogliarlo e lasciarci sedurre dal profumo della carta tagliata di fresco. Sul risvolto c’è la foto dell’autore: si regge il mento col pollice e l’indice, lo sguardo perduto nelle profondità dell’animo umano.
Che sia per qualche ora di treno o per settimane e settimane, ogni libro che leggiamo permea lo spazio della nostra interiorità. Tra la pagina uno e la parola fine accade qualcosa di mistico. Gli eventi d’inchiostro sconfinano nella quotidianità; per un giorno possiamo attraversare le piazze di Mosca spazzate dal vento, perderci nell’Africa dei Grandi Laghi, respirare la notte nei sobborghi di Tokyo.
L’ultima pagina e il buio spegne le parole. A spallate il libro trova posto nello scaffale, l’odore di nuovo svanisce, le pagine ingialliscono in silenzio. Saranno forse passati anni quando qualcun altro lo riaprirà – e sarà sempre qualcun altro, perché anch’io sarò un altro me stesso. Come due mani invecchiate le pagine si schiuderanno, rivelando il sogno azzurro che hanno custodito. Da quella lontananza noi stessi ritorneremo in vita nelle rughe di carta, rivivendo il tempo che un giorno fu nostro.