Lizzie che massaggia il collo sudato di un cliente. Lizzie che porta a casa un amante appesantito dagli anni e Lizzie che non riesce a smettere di sognare.
Dahlberg racconta la sua infanzia, e lo fa al di fuori di ogni retorica. Non usa la prima persona, ma si riferisce a se stesso come a un luogo di sofferenza senza identità. Il bambino desidera scoprire cosa c'è sotto i vestiti attillati delle donne-barbiere. Il bambino è d'impaccio quando Lizzie è in camera con qualcuno.
Il bambino si ritrova in orfanotrofio, dove tutti ridono di lui. Ne uscirà dopo cinque anni di pugni nello stomaco vuoto. Ne uscirà uomo: Io, Edward Dahlberg.
In quegli anni Lizzie si è consumata gli occhi sotto le lampade elettriche; il suo corpo ricurvo porta il segno degli sguardi dei clienti. Il figlio traccia i contorni impietosi di quella figura sbiadita.
Ma Dahlberg è imbevuto di letture religiose, e le fatiche quotidiane della madre – ma anche le sue "vergogne sudate" – si sovraccaricano di significati e vengono proiettati sull'orizzonte del sacro. Ne viene fuori una tragedia senza tempo, che diverte e commuove.
E intanto il giovane uomo è sopraffatto dalle pulsioni, e parte, alla disperata ricerca dell'altro sesso – lo scempio di una calvizie prematura non farà che peggiorare la situazione. Tra un insuccesso e l’altro pensa a come scrivere un libro decente.
Alla fine qualcosa accade, a Lizzie e a suo figlio, ma non sarebbe giusto rivelarlo qui. Potrete saperlo leggendo questa storia, ma non cercatela tra gli ultimi libri usciti. Scovatela, e scoprirete da voi quanto sia originale, quanto le pagine scorrano, veloci come la strada. Alla ricerca di qualcosa che sappia placare quella fame, fisica e spirituale, e che ci pone di fronte sempre la stessa domanda: Perché?. La risposta, forse, l'aveva Dahlberg: Poiché ero carne, ed alito che svanisce e non ritorna.