Eppure ci sono autori che confessano di non riuscire ad abbandonare la penna. Hanno bisogno di sentirla pulsare nel pugno, di scavare nel foglio le proprie emozioni. E non si tratta solo di orgoglio antimoderno. Questi uomini di lettere ricercano il contatto fisico con la scrittura, vogliono l’unione carnale con la pagina. La tastiera implica distanza, e resta relegata a un secondo momento, quando è arrivata l’ora di inviare il manoscritto all’editore. Soprattutto chi aspira a pubblicare poesie vuole che il verso si disegni libero sul foglio, tra le righe profumate d’inchiostro.
Certo, nessuno può negare gli aspetti positivi introdotti dalla scrittura digitale. I vantaggi sono incalcolabili, sia in termini di tempo che di comfort di scrittura. Computer e stampante funzionano come un’officina tipografica in miniatura. Ogni scrittore emergente sogna che l’ultima parola del suo dattiloscritto segni l’inizio di una nuova fortuna editoriale, e, senza quasi accorgersene, comincia a pensare a come pubblicare il suo libro.
Ma in questo processo di smaterializzazione della scrittura c’è qualcosa che va perduto. Non si tratta solo del rapporto fisico con la pagina; c’è qualcosa di più. Un autore abituato alla penna annota, cancella e corregge direttamente sul proprio manoscritto. Il processo creativo e il lavoro di rifinitura sono contemporaneamente presenti, analizzabili chiaramente. Tutto questo si perde invece sullo schermo – non conosco nessuno che scriva sempre in modalità revisione.
Il monitor ha vinto, questo è innegabile e inevitabile. Ma bisogna essere consapevoli che la scrittura digitale ci pone davanti al fatto compiuto, senza darci alcuna possibilità di capire perché lo scrittore abbia usato, tra centinaia di altre, proprio quella parola luminosa.