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BookSprint Edizioni Blog

06 Feb
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Intervista all'autore - Mario Niola -

Ci parli un po' di Lei, della Sua vita. Da dove viene? Come e quando ha deciso di diventare scrittore?
Sono nato e cresciuto a Napoli, nel 1981, e vivo a Posillipo.
Mi sono diplomato al liceo Mercalli nel 2002 e dopo, durante gli anni universitari, ho svolto diversi lavori per pagarmi gli studi tra cui il cameriere, l'operaio e davo ripetizioni di Matematica e Fisica ai ragazzi. Non ho mai conseguito la laurea, anche se ho sempre mantenuto vivissima l'attenzione per la scrittura. La cosa che mi ha sempre affascinato della scrittura è la capacità di poter esprimere pensieri differenti semplicemente variando la forma del linguaggio. Così ho cominciato ad appassionarmi ad alcuni scrittori nostrani, soprattutto Calvino, che considero il narratore più talentuoso tra quelli che l'Italia ha generato nel secolo scorso.
In realtà non ho mai pensato di diventare propriamente scrittore; ho cominciato sui blog con piccoli racconti e con articoli brevi su temi di attualità, soprattutto sulla politica e sulla filosofia.
Oggi purtroppo i blog e, in generale, gli spazi dedicati alla scrittura e soprattutto all'analisi e alla riflessione sono veramente pochi; si è gradualmente passati ai video sui social e la comunicazione è diventata sempre più orale e sempre meno scritturale. E questo vale anche per la scrittura. Scherzosamente penso che se un Calvino o un Pasolini oggi scrivessero sui blog, verrebbero probabilmente derisi per il loro linguaggio e forse pochi realmente li leggerebbero con attenzione. Oggi invece si preferisce il linguaggio della velocità, del pettegolezzo, dello scoop o dello slogan elettorale. È aumentata la velocità e l'oralità del linguaggio mentre l'aspetto legato alle riflessioni e al ragionamento è scemato fino a quello che io chiamo "il linguaggio degli opinionisti televisivi". Il mio romanzo vuole anche essere una parodia del linguaggio contemporaneo e dell'uso che se ne fa.
 
Nell’arco della giornata qual è il momento che dedica alla scrittura?
La sera e nel fine settimana. In realtà ogni momento è buono per scrivere qualcosa, sempre che ci sia la giusta dose di rumore o di silenzio. Se la stanza è rumorosa, la scrittura è più istintiva e verace. Se, invece, è silenziosa la scrittura e più riflessiva, ma anche più astratta e formale. Il vecchio dilemma filosofico di Sartre sulla scrittura è ancora attualissimo: servire la composizione del testo o la rappresentazione del contenuto? L'originalità propria o l'imitazione altrui? Essere sé o essere altro? Certe domande non invecchiano mai.
Ma non voglio dilungarmi su questo.
 
Il suo autore contemporaneo preferito?
Beh, qui si potrebbe discutere fino a domani. Calvino rimane inarrivabile sia come scrittore che come narratore. E poi Primo Levi, che, con "Il sistema periodico" ha donato alla lingua italiana una nobiltà assoluta, attraverso una sintassi ineccepibile e un perfetto equilibrio tra oralità e scritturalità. Erano scrittori che facevano "cantare" le pagine dei libri. Oggi non esistono più. L'ultima è stata la Morante. Con la Morante si chiude un ciclo, che io chiamo "il grande ciclo del novecento italiano letterario".
Oggi abbiamo ottimi scrittori, ma certo non paragonabili ai giganti del passato. Gli scrittori di oggi sono tutti ottimi, almeno sul piano della scrittura intesa come composizione letteraria. Il problema è che tutti incappano nell'errore di intendere la scrittura come gara di scrittura, ovvero come una sorta di competizione sportiva in cui vince chi scrive meglio: nulla di più sbagliato. E così finiscono per sbiadire i contenuti della loro scrittura con parole arcaiche o neologismi improbabili nel tentativo di filosofeggiare come il dottissimo Umberto Eco, piuttosto che in sterili e paranoici arabeschi sintattici nel tentativo di imitare un inimitabile Aldo Busi. Oggi è l'imitazione che prevale sull'originalità, si preferisce la composizione della forma anziché servire la rappresentazione della sostanza. Una certa "intellighenzia" guarda con terrore al linguaggio giovanile e al linguaggio dei media, dimenticando però che sono stati loro a creare quel linguaggio attraverso le loro apparizioni televisive. Difatti molti di questi intellettuali sono anche opinionisti televisivi e la cosa buffa è che, sentendoli parlare in televisione, mi accorgo che essi scrivono nei loro libri in modo completamente diverso da come parlano in televisione. Scrivono "alla Saramago" e parlano poi prendendosi a pesci in faccia in televisione come le vaiasse napoletane; predicano scrivendo male e razzolano parlando peggio. Il linguaggio dei giovani non va ghettizzato nei blog, ma sostenuto e arricchito attraverso contenuti di interesse pubblico e magari anche avere l'opportunità di finire pubblicato in un libro. Perché no? Il mio romanzo è un tentativo di restituire dignità ai giovani e al loro linguaggio attraverso l'oralità della scrittura.
 
Perché è nata la sua opera?
È nata per caso. Stavo scrivendo in internet alcuni articoli su temi di attualità e mi ero procurato anche una corposa rassegna stampa della cronaca politica degli ultimi anni. E ragionando sulle smentite e le contro smentite dei politici ho cominciato, quasi per gioco, a immaginare un personaggio che questi errori non li commette. Così è nata l'idea di una storia alternativa che ripercorre le principali vicende politiche degli ultimi anni. Dinnanzi ai numerosi fallimenti della politica nostrana era lecito chiedersi "come sarebbe andata se..." eccetera, eccetera. Ero incuriosito dall'idea di scrivere una storia alternativa. E così, dopo essere tornato a casa al termine di una serata con amici, mi sedetti al computer e cominciai a scrivere. Scrissi i primi due capitoli in meno di un'ora. Successivamente mi resi conto che in realtà la politica era solo uno degli aspetti di ciò che volevo realmente scrivere: una sorta di cornice o di luogo metaforico del tutto. Il passaggio successivo è stato l'introduzione di capitoli tematici che accompagnassero la narrazione intorno a questa cornice fantapolitica. Alla fine è venuto fuori un qualcosa che non saprei definire specificamente; una sorta di ibrido, al confine tra realtà e fantasia, immaginazione e rappresentazione. Una sorta di "caro diario" che riassume un po' la summa delle mie esperienze come blogger e invita il lettore a riflettere divertendosi. Quasi come se si stesse leggendo un articolo di Dagospia o ascoltando un pettegolezzo mattutino in un bar. Il linguaggio popolare, come dicevo, non va denigrato, ma arricchito di contenuti.
 
Quanto ha influito nella sua formazione letteraria il contesto sociale nel quale vive o ha vissuto?
La risposta più breve che mi viene in mente è: tutto e niente. O, più precisamente: in parte tutto e in parte niente. Oramai questa questione ha perso di significato, secondo me. Fino all'inizio degli anni '50 l'analfabetismo era molto forte negli strati popolari e solo pochi fortunati eletti diventavano scrittori. Spesso erano giovani della buona borghesia settentrionale, come Pavese, Moravia o Montale. Altre volte erano eruditi aristocratici del sud, come Tomasi di Lampedusa o la Deledda. Fortunatamente (o sfortunatamente) la nostra generazione è quella generazione in cui "tutti sono andati al liceo", ovvero la generazione dell'istruzione pubblica di massa, come scrissi una volta in un articolo sul mio vecchio blog. Questo ha prodotto un innalzamento complessivo della quantità di conoscenze e nozioni che ognuno ha potuto imparare, al costo però di produrre una sorta di omologazione del pensiero che, oltre ad abbassare la qualità letteraria complessiva, ha distrutto "quell'anima popolare analfabeta di nozioni, ma coltissima di tradizioni" (parafrasando Pasolini) che era poi la linfa vitale e, per questo, anche la principale protagonista della grande narrativa italiana dell'ottocento e del novecento. Fortunatamente però, a Napoli, questo non è accaduto. Nonostante l'omologazione di massa, una parte notevole, notevolissima, di quella tradizione popolare, è sopravvissuta e vive ancora oggi nei vicoli e non solo nei vicoli. Questa la considero una salvezza, soprattutto se si vuole riprendere la scrittura presentandola nella sua dimensione orale e popolare, pur se omologata dall'istituzione scolastica.
 
Scrivere è una evasione dalla realtà o un modo per raccontare la realtà?
Non credo che le due cose siano separabili. L'immaginazione è un naturale meccanismo di difesa attraverso il quale la mente umana sublima il desiderio. Il desiderio nasce sempre da ciò che non siamo o che non abbiamo o da dove non siamo. Da questa condizione umana lo scrittore ha due possibilità: il racconto immaginifico di tutto ciò che non è, ma che potrebbe essere oppure il racconto realistico di ciò che è, anche se è indesiderabile. Esiste però una terza via: raccontare ciò che non è stato, ma che poteva essere stato muovendo la narrazione a partire da ciò che, effettivamente, è stato. Vista in quest'ottica, l'ucronia fantapolitica, ovvero l'idea di una storia alternativa, diventa interessantissima anche sul piano filosofico.
 
Quanto di lei c’è in ciò che ha scritto?
Beh, se parliamo di forma, idea e scrittura, credo praticamente tutto. Anche se la costruzione dei protagonisti è stata realizzata attraverso una sorta di "collage" mettendo insieme alcuni importanti uomini politici del nostro passato come Mattei, Andreotti, De Mita, Craxi e Cossiga. Mi piaceva però l'idea che il personaggio protagonista, in particolare, avesse caratteristiche anche "nuove", ovvero non riconducibili alla maniera politica passata. In particolare ho scelto un personaggio con un passato nelle forze armate e nei corpi diplomatici poiché quest'idea mi avrebbe permesso poi di affrontare lo spinoso tema della meritocrazia di cui tanto si parla negli ultimi anni in Italia. A mio avviso sulla meritocrazia in Italia è stato fatto ancora troppo poco. Tornando al protagonista, mi sono ispirato anche a Zelensky e alla sua fortunata serie televisiva "Servitore del popolo".
 
C’è qualcuno che si è rivelato fondamentale per la stesura della sua opera?
I miei amici, con i quali spesso si finisce a parlare di politica e di attualità certamente sono stati molto importanti. Siamo nati nello stesso quartiere di Posillipo, anche se facciamo tutti lavori diversissimi: dal farmacista, all'agente immobiliare passando per il personal trainer e l'operaio portuale. Però agli aperitivi del sabato pomeriggio non si manca mai. E si parla, soprattutto si discute. A volte animatamente, quando non siam d'accordo. E, in genere, non lo siamo praticamente mai!
 
A chi ha fatto leggere per primo il romanzo?
A una mia vecchia insegnante di Lettere, in primis, e poi ai miei amici. Il giudizio iniziale è stato non particolarmente buono, anche perché non avevo ancora finito la prima stesura e il romanzo era ancora quasi esclusivamente formato dai soli dialoghi. Solo dopo mi sono reso conto che la scrittura meritava di più che un semplice racconto fantapolitico. Se così non fosse non avrebbe senso scrivere. Non si scrive solo per raccontare e non si scrive solo per scrivere. Si scrive se si ha qualcosa da dire, altrimenti è inutile.
 
Secondo lei il futuro della scrittura è l’ebook?
Non sono né un bibliofilo né un materialista. Non sento il bisogno di avere in mano la carta o di sentirne l'odore. Però non mi piace l'idea di un libro rinchiuso dentro un dispositivo elettronico. Vede, ormai viviamo nell'era di quella che gli americani chiamano "la società informazionale", dove tutto viene ridotto a servizio. L'oggetto diviene servizio e il soggetto un semplice utilizzatore del servizio. Non amo l'idea del libro come "Book as a service" o del libro come "servizio di intrattenimento personale", quindi preferirei che alla praticità dell'ebook si continuasse ad usare il libro in forma cartacea, giusto per ricordarsi che non si tratta di un servizio di intrattenimento come può esserlo, ad esempio, un videogioco o una app, bensì di un oggetto che deve dare un godimento di tipo diverso. Non ho nulla contro Amazon Kindle & C., ma ritengo che il libro, soprattutto un romanzo, non possa ridursi a un app. Questo però dipende anche dal contenuto dello scritto, quindi la responsabilità è anche nostra. Soprattutto nostra.
 
Cosa ne pensa della nuova frontiera rappresentata dall’audiolibro?
È importantissima per l'apprendimento dei bambini e per avvicinare i piccoli alla lettura. È inoltre fondamentale per poter garantire anche alle persone con disabilità visive la possibilità di leggere, ascoltando. Da questo punto di vista sono favorevolissimo, anche perché sostengo la necessità di tornare a una scrittura che sia veramente orale. Come dico sempre: "Chi non parla, non scrive."

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