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12 Giu
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Intervista all'autore - Giovanni Dimarco -

Ci parli un po' di Lei, della Sua vita. Da dove viene? Come e quando ha deciso di diventare scrittore?
Sono nato e cresciuto a Irsina, uno dei borghi più affascinanti e nascosti della Basilicata.
È un luogo incantevole, un intreccio pittoresco di vicoli e costruzioni civili e religiose, dove la bellezza artistica si fonde con la razionalità architettonica in uno spazio raccolto ma sorprendente. Il tutto è immerso in una natura ancora incontaminata, che ha nutrito la mia immaginazione sin dall’infanzia. È proprio tra quei vicoli e quei silenzi che la mia fantasia ha cominciato a vagare libera, trovando nella parola poetica uno strumento naturale per esprimersi.
Nel 1991 mi sono trasferito a Bologna, dove vivo tuttora e lavoro come infermiere presso l’Ospedale S. Orsola. La scrittura, e in particolare la poesia, è diventata per me un modo per dare forma ai pensieri e alle emozioni che mi attraversano, spesso nate dall’incontro tra la memoria del mio paese d’origine e le esperienze vissute nel quotidiano.
 
Nell’arco della giornata qual è il momento che dedica alla scrittura?
Il momento che dedico alla scrittura è la notte, quando il silenzio si fa più intenso e tutto intorno sembra placarsi. È allora che la mente si libera dai rumori del giorno e può slanciarsi oltre, verso pensieri più profondi, visioni più limpide. Nella quiete notturna le parole affiorano con più sincerità, quasi chiamate da un’intimità che solo il buio sa custodire. Scrivere di notte è come conversare con sé stessi senza timore d’interruzioni.
 
Il suo autore contemporaneo preferito?
Umberto Galimberti
 
Perché è nata la sua opera?
È nata dal bisogno profondo di trovare un rifugio nelle parole, un luogo intimo dove poter abitare quando il mondo fuori si faceva troppo duro o troppo silenzioso. È nata dalla necessità di dare voce a emozioni che non trovavano spazio altrove, di consolare me stesso e, forse, chi legge. Scrivere è stato un modo per ricucire strappi interiori, per trattenere attimi di bellezza o di dolore prima che svanissero. La poesia, per me, è un atto di resistenza e di tenerezza: così è nato questo libro, come un gesto d’amore verso ciò che ci rende umani.
 
Quanto ha influito nella sua formazione letteraria il contesto sociale nel quale vive o ha vissuto?
Il contesto sociale ha influito profondamente sulla mia formazione letteraria. Essere nato e cresciuto a Irsina, borgo incantevole e silenzioso della Basilicata, ha nutrito fin da piccolo la mia immaginazione: tra vicoli antichi e natura incontaminata, la parola poetica è sorta come espressione naturale. Al tempo stesso, il mio lavoro in ospedale, a stretto contatto con la sofferenza, ha dato alla mia scrittura una dimensione più profonda e autentica, insegnandomi ad ascoltare il dolore e a trasformarlo in parola essenziale e vera.
 
Scrivere è una evasione dalla realtà o un modo per raccontare la realtà?
La scrittura può essere entrambe le cose: un’evasione dalla realtà e un modo per raccontarla. Nel mio caso, dove la poesia nasce soprattutto come rifugio, come ricerca di un altrove più intimo e profondo, proprio come accadeva nei poeti decadenti, scrivere diventa un atto di sottrazione al mondo esterno, un gesto di difesa e di resistenza. È un modo per costruire uno spazio interiore in cui la sensibilità trova riparo.
Ma anche in questa evasione, inevitabilmente, filtra la realtà: attraverso simboli, immagini, atmosfere. La mia poesia, pur rifuggendo dal quotidiano, racconta comunque il mio sguardo sul mondo, le emozioni che mi attraversano, le contraddizioni del tempo che vivo. Dunque, scrivere è un’evasione che finisce per raccontare la realtà, ma attraverso un velo di sogno, nostalgia o malinconia.
In questo senso, come per i decadenti, la poesia diventa un ponte tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che accade fuori e ciò che si agita dentro.
 
Quanto di lei c’è in ciò che ha scritto?
C’è quasi tutto di me. Ogni verso è intriso di quello che ero e di quello che desideravo essere. Ci sono i gesti che non ho compiuto, gli sguardi trattenuti, le attese silenziose. E poi ci sono le piccole cose, minime, quasi impercettibili, che il desiderio ha saputo ingrandire fino a renderle essenziali. Scrivere, per me, è stato un modo per riconoscermi in ciò che sentivo e, allo stesso tempo, per perdermi in ciò che immaginavo.
 
C’è qualcuno che si è rivelato fondamentale per la stesura della sua opera?
Senz’oncia di esibizionismo, il merito principale va a me stesso, alla mia capacità di stupirmi continuamente e di lasciarmi attraversare da ciò che vivo e osservo. È questo sguardo, sempre pronto a cogliere il dettaglio e a trasformarlo in parola, che ha guidato la stesura della mia opera. Naturalmente, lungo il percorso ci sono stati incontri e suggestioni che mi hanno arricchito, ma la spinta creativa più autentica è nata dentro di me.
 
A chi ha fatto leggere per primo il romanzo?
Alla mia famiglia, che ha sempre mostrato una particolare sensibilità e attenzione verso ciò che scrivo.
 
Secondo lei il futuro della scrittura è l’ebook?
Il futuro della scrittura include certamente l’ebook, grazie ai suoi vantaggi pratici e multimediali. Tuttavia, il libro cartaceo conserva un valore sensoriale e affettivo insostituibile. L’ideale è saper scegliere tra i due formati in base alle circostanze.
 
Cosa ne pensa della nuova frontiera rappresentata dall’audiolibro?
L’audiolibro è uno strumento prezioso: ideale per lo svago o nei momenti di stanchezza, ma meno adatto allo studio, dove il libro cartaceo resta preferibile per concentrazione e rilettura. Dal punto di vista culturale, favorisce l’accesso alla lettura anche a chi incontra difficoltà oggettive, come gli ipovedenti, che faticano a leggere il testo scritto, o i dislessici, per i quali la decodifica delle parole può essere lenta e frustrante. Inoltre, l’interpretazione vocale può arricchire l’esperienza offrendo una dimensione emotiva diversa.

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