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BookSprint Edizioni Blog

03 Mag
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Intervista all'autore - Francesco Zappone -

Ci parli un po' di Lei, della Sua vita. Da dove viene? Come e quando ha deciso di diventare scrittore?
Vengo da una piccola cittadina, di quelle dove tutti si conoscono e dove le emozioni spesso si tengono dentro, un po’ per pudore, un po’ per abitudine.
Crescere in un contesto così mi ha insegnato ad ascoltare molto, ad osservare i silenzi, i non detti. Credo che la mia scrittura sia nata proprio lì, prima ancora di sapere che un giorno l’avrei chiamata “scrittura”: nel bisogno di dare voce a ciò che restava sottotraccia.
Non ho deciso di diventare scrittore in un momento preciso. È stato un processo graduale, fatto di taccuini pieni, riflessioni condivise, domande ricevute da chi cercava risposte concrete su relazioni, scelte, conflitti interiori. A un certo punto ho capito che quelle parole potevano essere utili anche ad altri. Da lì, ho scelto di fare della scrittura uno strumento, non solo espressivo ma anche trasformativo.
 
Nell’arco della giornata qual è il momento che dedica alla scrittura?
Scrivo quasi sempre di sera. È il momento in cui tutto rallenta, i rumori si abbassano e posso davvero ascoltarmi. Durante il giorno raccolgo stimoli, frasi, incontri, osservazioni — la sera è il tempo della sintesi, dove tutto prende forma. È come se, solo allora, riuscissi a tirare fuori con chiarezza ciò che si è sedimentato dentro. A volte basta una frase appuntata al volo su un foglio per far nascere una pagina intera. Scrivere di sera, per me, è come fare ordine prima di dormire.
 
Il suo autore contemporaneo preferito?
Ce ne sono molti che stimo, ma se devo sceglierne uno, direi Irvin Yalom. Riesce a intrecciare psicologia e narrazione con una profondità che ti lascia sempre qualcosa, anche quando racconta un semplice dialogo. Leggerlo per me è come fare terapia e formazione insieme.
 
Perché è nata la sua opera?
Le strade del destino è nata da una domanda che mi sentivo rivolgere spesso, sia durante i percorsi personali che nei momenti più informali: “Ma quanto dipende da noi e quanto dal destino?” È una domanda che affascina e spaventa allo stesso tempo. Il libro è nato proprio dal bisogno di esplorare questo confine tra ciò che ci accade e ciò che scegliamo.
Non è un saggio teorico, ma un viaggio dentro le dinamiche psicologiche che guidano — spesso in modo inconsapevole — le nostre decisioni. Volevo offrire uno strumento pratico, ma anche riflessivo, per aiutare le persone a riconoscere i propri schemi, i condizionamenti invisibili, e a riappropriarsi della possibilità di scegliere in modo più autentico.
Ogni capitolo parte da un caso reale, una storia vera, perché credo che la teoria abbia senso solo se è radicata nella vita vissuta.
 
Quanto ha influito nella sua formazione letteraria il contesto sociale nel quale vive o ha vissuto?
Ha influito tanto. Sono cresciuto in un contesto dove si parlava poco di emozioni, dove certi vissuti venivano taciuti più che condivisi. Questo mi ha spinto fin da giovane a osservare attentamente gli altri, a cercare di “leggere” ciò che non veniva detto. In un certo senso, la mia scrittura è nata per colmare quel vuoto di parole autentiche.
L' influenza del contesto sociale continua sempre. Vedo quanta difficoltà c’è nel fare scelte libere, quanta paura nel cambiare, quanta confusione tra ciò che vogliamo davvero e ciò che ci hanno insegnato a volere. Tutto questo entra nei miei testi: non per giudicare, ma per offrire chiavi di lettura diverse, più consapevoli. Scrivere, per me, è anche un atto di restituzione: raccogliere ciò che ho vissuto e trasformarlo in qualcosa che può servire anche agli altri.
 
Scrivere è una evasione dalla realtà o un modo per raccontare la realtà?
Per me scrivere è un modo per attraversare la realtà, non per scappare. Non la racconto per come appare, ma per come viene vissuta dentro le persone. Scrivere mi permette di dare forma a ciò che spesso resta confuso, sommerso, difficile da nominare. Non è mai fuga, semmai è un rientrare più in profondità dentro le cose.
Quando scrivo, cerco di raccontare la realtà che sta sotto le scelte, sotto le relazioni, sotto i comportamenti. A volte basta cambiare prospettiva per trasformare una crisi in una svolta. E se chi legge riesce a vedere sé stesso tra le righe, allora quel pezzo di realtà non è solo raccontato, ma anche riconosciuto. Ed è lì che avviene il cambiamento.
 
Quanto di lei c’è in ciò che ha scritto?
C’è molto di me, anche se non in modo diretto. Non racconto la mia vita, ma ogni parola che scrivo è filtrata dalla mia esperienza, dal mio modo di guardare le persone, le relazioni, le scelte. Ogni caso che porto nel libro è reale, vissuto, ascoltato da vicino, e mi ha lasciato qualcosa. Quindi sì, c’è la mia voce, il mio sguardo, la mia sensibilità.
Scrivere Le strade del destino è stato anche un percorso personale. Mi ha costretto a rimettere in discussione idee che davo per certe e a confrontarmi con i miei stessi meccanismi interiori.
 
C’è qualcuno che si è rivelato fondamentale per la stesura della sua opera?
Sì, sicuramente. Non si scrive mai da soli. Per me, ci sono state più figure fondamentali: più persone che, pur non essendo nel mondo della scrittura, hanno sempre saputo ascoltare le mie idee senza giudicare e con una capacità rara di farmi vedere le cose da angolazioni diverse. Sono stati il mio punto di riferimento, il mio "specchio" in cui vedere se ciò che scrivevo davvero rispecchiava ciò che volevo dire.
La scrittura, in fondo, è sempre un dialogo — anche con chi non è direttamente coinvolto nel progetto. E io ho avuto la fortuna di avere persone accanto che mi hanno spinto a dare il meglio.
 
A chi ha fatto leggere per primo il romanzo?
Il mio primo lettore è stato un caro amico, che conosce bene il mio percorso, ma che ha sempre avuto il coraggio di dirmi le cose come stanno. Non ha mai avuto paura di mettermi in discussione, e per me questo è stato fondamentale. È stato lui a leggere la prima bozza del mio libro, e la sua reazione è stata la prova che stavo facendo la cosa giusta. Non mi ha dato risposte facili, ma mi ha aiutato a vedere dove il testo aveva bisogno di forza, dove era più incerto e dove, invece, avevo trovato una buona strada. La sua onestà mi ha permesso di migliorare il lavoro, di affinare il messaggio.
 
Secondo lei il futuro della scrittura è l’ebook?
La scelta dipende dalle circostanze. Per la lettura quotidiana o quando sono in viaggio, l'ebook è sicuramente comodo e pratico. Tuttavia, quando ho il tempo di fermarmi e immergermi completamente in una lettura, non c’è nulla che possa eguagliare l’esperienza del cartaceo.
Il cartaceo ha un fascino unico. C’è qualcosa di magico nell’aprire un libro, nel sentire la texture della carta tra le dita e nel respirare il suo profumo. È un’esperienza sensoriale che l’ebook, per quanto utile, non riesce a offrire.
 
Cosa ne pensa della nuova frontiera rappresentata dall’audiolibro?
Penso che l’audiolibro rappresenti una possibilità straordinaria, soprattutto in un mondo che corre sempre più veloce. È una forma che offre a chi ha poco tempo la possibilità di "leggere" mentre fa altro: in macchina, durante una corsa, o anche mentre si cucina. È un modo di fruire i libri che rende la lettura più accessibile, più dinamica.
Inoltre, l’audiolibro aggiunge una dimensione emotiva diversa, perché la voce dell’autore o del narratore può dare una tonalità unica al testo, un’interpretazione che a volte arricchisce e fa risuonare le parole in modo nuovo.
Penso che non sostituirà mai il piacere di sfogliare un libro e perdercisi dentro, ma è una modalità che va a completare l’esperienza. È una nuova dimensione, che, se ben fatta, può davvero dare vita alle parole in un modo diverso.

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