Parliamo un po’ di Lei, dove è nata e cresciuta?
Sono nata a Bologna, da madre bolognese e padre romagnolo. E sono molto felice di questa genitorialità da due terre che amo profondamente.
A Bologna sono cresciuta, ma con lunghi e intensi periodi sull’Appennino: per questo sono immensamente legata alla montagna e alla vita contadina, che segnò la mia infanzia. A Bologna vivo tutt’ora, ma non sono sempre stata qui, anzi. Negli anni ’90 ho vissuto a Roma, prima di prendere il volo per l’Africa, dove avevo già viaggiato più volte, ma partii finalmente per restarci “un po’ ”. Ho lavorato circa sette anni come pedagogista - cooperante internazionale. Soprattutto in Paesi africani, ma anche Haiti (dopo il terremoto del 2010) e Palestina (durante l’Intifada del 2003). Attualmente insegno a Bologna. La mia ultima missione in Africa risale ormai al 2013.
Come è nata la sua opera, cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?
Questo non è il mio primo libro, anzi. Scrivere mi è sempre piaciuto, e soprattutto ho sempre amato documentare il mio lavoro, in particolare quando ero all’estero. Ma avevo voglia di farlo anche rispetto al mio lavoro di insegnante, qui in Italia. Volevo poter testimoniare un approccio non ancora molto diffuso in Italia, e ancor meno alla scuola primaria. Quello – come dice lo stesso titolo - della complessità, dell’interdipendenza, e dell’interdisciplinarità. Volevo anche mostrare che la scuola pubblica ci dà la possibilità di implementare una quantità enorme di strategie. Non è vero che sia così ingessata, pachidermica, come generalmente la si dipinge. La scuola è fatta dalle persone che la animano, e che in quanto tali hanno in mano un enorme potenziale.
Chi è stata la prima persona che lo ha letto?
All’inizio l’ho fatto leggere solo ad un paio di persone (che cito tra i ringraziamenti in chiusura del libro) che in buona parte sono “addette ai lavori”, e quindi per me il loro avviso era molto importante. Tra queste, un caro amico che in gran parte è stato anche colui che mi ha aiutato ad “accendere la lampadina” iniziale, dopodiché tutto si è illuminato, e la scrittura a quel punto è corsa via come un flusso ininterrotto. Infatti, sebbene avessi voglia di raccontare diversi aspetti del mio lavoro, da mesi non riuscivo a trovare un bandolo della matassa. Mi focalizzavo su aspetti singoli, che però non mi convincevano. È stato proprio il parlare con qualcuno di curioso, abituato a porre domande e a “scavare” per cercare risposte, che ha portato anche me a trovare la risposta che cercavo.
E ha mai pensato, durante la stesura del libro, di non portarlo a termine?
No, assolutamente, anzi. La difficoltà è stata nel trovare, come si dice, “il LA”. Una volta trovato quello, era scoccato il fischio d’inizio, e non c’era più motivo di fermarsi. È stato bello. Amo scrivere. Avevo molto da raccontare, e tirarlo fuori è appassionante. È un dono, verso di sé e verso gli altri.
C’è un episodio legato alla scrittura del libro che ricorda con piacere?
Ce ne sono diversi. Sicuramente mi è piaciuto molto confrontarmi con le pochissime persone a cui di volta in volta lo facevo leggere, che mi davano i loro feedback. Poi mi è piaciuto molto lo scambio epistolare con Telmo Pievani, a cui avevo chiesto sin dall’inizio la disponibilità a curarne la prefazione. È stato di una grande delicatezza e anche di una grande attenzione. Quando me la inviò, trasalii nel leggerla. Ero colpita dalle sue parole, che testimoniavano il suo “ascolto” attento e profondo di ciò che avevo voluto dire.
A parte questo, poiché il libro parla di cose vere, che ho praticato a scuola con i bambini per anni, è come se in ogni capitolo ci fossero episodi particolari: in ciascuno di essi, risuonano ricordi con quel bambino o quell’altro. Quindi col suo mondo, i suoi sentimenti, il suo viso.
I suoi autori preferiti, nel presente o nel passato...
Uh! Domanda difficilissima. Impossibile. Non ne ho! Cioè: sarebbero troppi. Diciamo che in generale io amo soprattutto il non-fiction. Certo leggo anche narrativa, ma principalmente mi piace leggere di storie vere, o romanzi storici. O infine saggistica. Potrei dire alcuni autori e loro libri che ho amato enormemente. Come Amos Oz, per esempio, con la sua autobiografia “Una storia d’amore e di tenebra”; o quella di Nelson Mandela, “Lungo cammino verso la libertà”. E ancora: “Una famiglia turca”, di Irfan Orga. “Cigni selvatici”, di Jung Chang. Mi piacciono i racconti di viaggi e antropologici, come quelli di Fosco Maraini, o di Tiziano Terzani. I testi umanamente densi, come quelli di Gino Strada.
Ho apprezzato molto anche la trilogia autobiografica-romanzata di Lilli Gruber, sulla storia della sua famiglia dalla fine dell’impero asburgico ai nostri giorni. Amo la narrativa sudamericana (Isabel Allende, Amado, Marquez...). E poi naturalmente ho sempre letto gli autori delle cause per cui ho lavorato: autori palestinesi, scrittori africani... E mi piace molto leggere storie di scuola. Uno dei libri che mi segnarono sin da piccola fu l’eccezionale “Un anno a Pietralata” di Albino Bernardini (anche se prima attraverso la versione televisiva fatta dal grande Vittorio De Seta, “Diario di un maestro”, del 1972). Nella mia libreria ho una sezione dedicata a “diari di maestre e maestri”. Li trovo fantastici, molto spesso commoventi. Sono le storie di tanta fatica e spesso miseria, che hanno fatto il nostro Paese. In questa sezione ovviamente non mancano Don Milani e Mario Lodi, ma anche tanti altri e altre meno famosi, che però hanno cresciuto generazioni di bambini.
Quanto ha influito nella sua formazione letteraria il contesto sociale nel quale vive o ha vissuto?
Ah enormemente, come è inevitabile che sia. Noi siamo... l’aria che respiriamo. Non sarei io senza la mia bolognesità. E me ne sono resa conto soprattutto grazie agli anni all’estero. (Come sempre, è l’incontro con l’altro che ti fa percepire la tua propria identità). Sono immensamente grata alla mia città, e in egual misura alla sua università, nella quale sono davvero cresciuta. Anche un corso di laurea, ha delle caratteristiche particolari a seconda del luogo in cui si svolge. Io ho ricordi splendidi dell’humus di cui ci si nutriva studiando le scienze dell’educazione (sociologia, antropologia, psicologia, pedagogia) presso l’Alma Mater (l’università più antica del mondo!) negli anni ’80.
Quanto di Lei c’è in ciò che ha scritto?
Beh, considerato che è un libro che parla di esperienze concrete, direi che c’è praticamente tutto! Infatti, lo chiamo spesso il mio “testamento pedagogico”. Anche se non sono esattamente alla fine della carriera lavorativa, dato che per la pensione... mi dicono sempre che sono “troppo giovane”!
La scelta del titolo è stata semplice o ha combattuto un po’ per deciderlo tra varie alternative?
No, la scelta del titolo non è stata difficile. Come dicevo sopra, l’operazione più difficile è stata nel trovare il tipo di taglio da dare a quanto volevo dire. Avevo in mente tante cose, ma viste in modo settoriale, e non riuscivo a raccapezzarmi. Quando ho realizzato che volevo mettere l’accento proprio sulle interrelazioni, le inevitabili interdipendenze, allora titolo e testo sono venuti da sé. Una volta trovato il famoso bandolo, la matassa si è sciolta, e il pensiero è volato libero.
Cosa pensa della progressiva perdita del libro cartaceo a favore dell’eBook?
Mah, da un lato penso che sia un po’ nell’ordine delle cose. Così come ad un certo punto si è smesso (per fortuna!) di fare libri stampati su pergamena per farli su carta, oggi si fanno sempre meno su carta, per utilizzare un non-supporto. Un materiale che non c’è. Per il pianeta credo sia senz’altro un bene. Dall’altro lato, essendo io della generazione a cavallo di questo mutamento, non posso proprio fare a meno del supporto “vero”. Quello che puoi toccare, sfogliare, annusare. Mettere in valigia, appoggiare su un prato, portare da un paese all’altro e regalare a chi ti aspetta... Dubito però che verrà mai il giorno in cui il supporto cartaceo possa sparire del tutto. Se ne andrebbe un’immensa bellezza. Una grande forma d’arte. Le tecnologie si susseguono. Spesso le nuove subentrano alle vecchie. Certo il ferro da stiro elettrico ha fatto andare in pensione quello a carbone. Ma vivaddio la musica elettronica non ha mandato in soffitta violini e pianoforti! E certi ambiti librari, come quello per l’infanzia di cui a Bologna abbiamo la Fiera internazionale più importante al mondo, non potranno mai diventare elettronici.
E della nuova frontiera rappresentata dall’audiolibro?
Credo gli audiolibri siano un’invenzione spettacolare, per moltissime persone e molti diversi motivi. Innanzitutto per l’ovvio aiuto che possono dare a chi ha difficoltà di lettura, e non mi riferisco solo ai non vedenti, ma anche ai dislessici, per esempio, o alle persone anziane con problemi gravi di vista. Ma, difficoltà a parte, ci sono altri aspetti molto utili. Per esempio c’è chi ascolta audiolibri mentre lavora, se fa un lavoro manuale e monotono, per cui può ascoltare musica, ma anche racconti, o saggi. C’è chi ama ascoltare letture mentre guida, o mentre pulisce casa, o stira. Personalmente non faccio molto uso di audio letture, ma durante il lockdown invece mi furono sorprendentemente utili. Avendo tante ore da passare in casa, trovai il tempo per riprendere uno degli hobbies che avevo da più giovane: il lavoro a maglia. Così, mentre sferruzzavo, ascoltavo. Le voci degli attori mi portarono in luoghi ed epoche diverse, il tutto mentre stavo ancorata nella mia veranda, con il silenzio di quel periodo difficile per tutti. Ne ho un ricordo magico.