1. Ci parli un po' di Lei, della Sua vita. Da dove viene? Come e quando ha deciso di diventare scrittore?
Mi viene in mente un ricordo. Primi anni Sessanta. Io che parlo al telefono con un mio amico di scuola. Gli dico che da grande scriverò un libro. A raccontarlo oggi si capisce che erano sogni, ma i sogni a volte si avverano. Sono figlio di una generazione che ha creduto potersi costruire opportunità lasciando il paese per la città. Anche se non ci sono nato, a Torino sono cresciuto e ho costruito le vicende della mia vita. I miei genitori volevano che studiassi da perito elettrotecnico e conseguissi il diploma. Alla fine ci sono riuscito, anche se di quelle materie tecniche ho sempre capito ben poco, e non sono capace di cambiare una lampadina. A me piaceva la letteratura e le canzoni dei cantautori: Guccini, Stefano Rosso, Claudio Lolli, De Gregori. Queste sono le radici della mia passione di scrivere: un gesto naturale, una esigenza espressiva, una urgenza senza tempo.
2. Nell’arco della giornata qual è il momento che dedica alla scrittura?
Non ho un momento preciso. Mi capita di scrivere ovunque, in qualsiasi tempo e luogo. Prendo spesso appunti, annoto idee, pensieri, spunti di frasi che mi vengono in mente durante le giornate. È come se alimentassi un archivio. Un archivio del tutto casuale, disordinato, senza un tema sviluppato in modo metodico. Solo in un secondo tempo questo materiale può suggerirmi una trama, una linea di racconto sulla quale mi sembra valga la pena lavorare. Allora divento più organizzato, metto le cose in ordine, faccio delle scelte tematiche. In questa fase mi organizzo e scrivo al mattino presto, ogni giorno, per una, due ore.
3. Il suo autore contemporaneo preferito?
Mi piacciono le storie di Carofiglio. Il personaggio dell’avvocato Guerrieri, per esempio, lo trovo coinvolgente, con una narrazione misteriosa, per certi versi inquietante, sullo sfondo della città di Bari, il porto, la città vecchia, a cui sono legato per ragioni private, diciamo sentimentali. Forse sarà che sono laureato in diritto penale e che le storie giudiziarie che vive Guerrieri mi fanno ricordare persone e situazioni della mia vita di anni fa.
Mi piace anche Carver, la sua tecnica di narrazione, lo stile dei suoi racconti in cui sembra non accada mai nulla e all’improvviso stai davanti all’idea letteraria, all’immagine narrativa indimenticabile, una emozione evocativa che rimane impressa per sempre.
4. Perché è nata la sua opera?
Ci sono delle storie che maturano nel tempo ma che non riesci a vedere: sensazioni e basta. Una sorta di energia che scorre nascosta come un fiume carsico. Una sera aspettavo una corriera in un paesino di montagna. Pioveva e stavo sotto la pensilina della fermata. Non c’era nessuno, faceva freddo. Allora, chissà perché, mi venne in mente un personaggio a cui stavo lavorando che aveva le sembianze di mia figlia. Fu lì che mi venne in mente la scena finale del mio romanzo, dove questo personaggio dice: “Valerio è andato al mare”, una espressione densa, profonda per come vivevo il suo coinvolgente impatto simbolico. Voglio dire che quella frase dava un carattere a tutta l’emozione del racconto e conteneva la forza che mi serviva per dare una struttura alla struttura narrativa e procedere nella storia a ritroso: dalla fine all’inizio. Quella sera, tornato a casa, cominciai a scrivere. Capii che volevo raccontare del cambiamento e di come il cambiamento è inevitabilmente presente nella nostra vita. In particolare, volevo parlare della differenza tra cambiamento e progresso, visto che il cambiamento è automatico, il progresso no. Ecco il tema della responsabilità e del saper fare scelte. In altre parole, volevo raccontare di un personaggio impegnato in un bilancio esistenziale e alla possibilità di dare alla vita una traiettoria desiderata, proprio nei momenti dove molto sembra ormai deciso o perduto.
5. Quanto ha influito nella sua formazione letteraria il contesto sociale nel quale vive o ha vissuto?
Per me l'attaccamento all'ambiente e alle mie radici è un valore. L'influenza sulla formazione letteraria, sullo stile, personalmente lo attribuisco allo sguardo con cui guardo alle relazioni e alle cose del mondo. Credo molto nell'appartenenza perché, a mio modo di vedere, essa esprime e concretizza nei comportamenti il concetto di “essere una parte”. Ultimamente il concetto di parte, del prendere posizione, sembra aver ceduto il passo a scelte di convenienza, di opportunità, e alla ricerca costante del nuovo. Sono convinto che la ricerca del nuovo nasconda in realtà e inesorabilmente la stessa insoddisfazione. A proposito di formazione letteraria in relazione all’ambiente, Sant'Agostino diceva che “occorre saper trovare il nuovo nello stesso”. Ecco, l'influenza del contesto e delle radici nella mia scrittura sta in questo voler ricercare non il nuovo, ma una nuova piega nello stesso, un modo di evolvere l'esperienza e la memoria nella società che cambia. In questo è il significato esistenziale di eredità. Credo che il concetto di eredità, espresso dell’esempio di vita di mio padre sia un valore da conquistare. Questo è il cammino che, nella continuità, mi conduce a svelare il senso del mio tempo e dell’esperienza che in assenza di questo sarebbe per me incomprensibile, senza punti di riferimento.
6. Scrivere è una evasione dalla realtà o un modo per raccontare la realtà?
È stato detto che le parole credono di descrivere il mondo mentre in realtà lo inventano. Scrivere è per me raccontare la realtà ma nello stesso tempo inventarla, trasfigurarla. Baricco ha detto che quando da una vicenda sfiliamo i fatti, ciò che resta è storytelling, la narrazione. Mi spiego: i fatti sono la realtà, ma senza la narrazione perdono di significato. Nel gesto dello scrivere credo che sia utile lavorare su due piani paralleli: il piano della realtà e quello dell’evasione, della creatività. Ciò è nella natura delle cose perché quando raccontiamo descriviamo qualcosa che non è oggettivo ma una interpretazione della realtà mediato dal nostro punto di vista soggettivo.
7. Quanto di lei c’è in ciò che ha scritto?
Direi parecchio. In tutti i personaggi del libro c’è una parte di me. L’emozione dello scrivere, in questo caso, è nata dallo scoprire come queste diverse parti si sono confrontate, ricercando una lettura diversa dell’esperienza e della mia identità: un viaggio di scoperta, insomma. La scrittura può consentire di assumere un punto di osservazione più distaccato; consente, come direbbe Duccio De Metrio, di dichiarare, verso se stessi, una “tregua”, per capire diversamente la vita, uscendo dalla logica del giudizio malevolo. Una scrittura che sia espressione di questa tregua è una scrittura che insegna molto soprattutto a chi la realizza. Per questo, e in questi limiti, il mio può essere considerato anche un romanzo in parte autobiografico.
8. C’è qualcuno che si è rivelato fondamentale per la stesura della sua opera?
Non saprei indicare una persona in particolare, piuttosto direi l’insieme delle persone con cui ho lavorato negli anni della fabbrica, dal 1989 al 2000. Gli spunti narrativi che nel libro fanno riferimento alla vita aziendale sono una invenzione che trova nella realtà di quegli anni molti spunti realistici. Per questo le considerazioni sul cambiamento organizzativo non vogliono essere una creazione narrativa, ma l’occasione per una riflessione su situazioni realmente accadute. L’idea del cambiamento, come occasione di crescita e responsabilità, sta a indicare quello in cui credo e auspico socialmente per il progresso del lavoro nelle fabbriche.
9. A chi ha fatto leggere per primo il romanzo?
L’ho fatto leggere a un operaio e a un imprenditore che non conoscevano questa mia passione letteraria. L’impressione che mi hanno restituito del manoscritto è stata di familiarità con le cose che effettivamente accadono nelle aziende. Questo per me è stato significativo perché solo se vengono riconosciuti elementi di familiarità la comunicazione può realmente passare, creare significati e generare conseguenze.
10. Secondo lei il futuro della scrittura è l’ebook?
Credo che l’ebook sia uno strumento al passo coi tempi e con le abitudini delle persone. È un modo per far fruire i libri che allarga il campo delle possibilità e attrae un pubblico non diversamente interessato. Mi sembra che ampliare i modi di accedere ai contenuti dei libri sia sempre una possibilità, una opportunità da valorizzare e sulla quale investire.
11. Cosa ne pensa della nuova frontiera rappresentata dall’audiolibro?
Ogni tecnica che sia al servizio della parola favorisce la diffusione della cultura. Per questo l’audiolibro, a mio avviso, è uno strumento che va in questa direzione rendendo possibile accedere ai libri in modo diverso. Quello che mi auspico è che ci sia la capacità degli editori di sapere integrare fra loro questi strumenti alternativi. Si tratta di ricercare un punto di equilibrio funzionale, dare spazio alle differenti tecniche, fermo restando che il fascino del libro cartaceo da toccare, sfogliare e leggere, personalmente resta difficilmente superabile.