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22 Ago
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Intervista all'autore - Francesco Leonetti

1. Ci parli un po' di Lei, della Sua vita. Da dove viene? Come e quando ha deciso di diventare scrittore?
Sono nato e cresciuto a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, una cittadina che negli anni ‘50-‘60-‘70 era ricca di industrie conserviere, tessili e meccaniche, quindi una provincia ricca, ma pur sempre una provincia.
La mancanza di attrazioni e distrazioni, che non fosse uno dei tre cinema all’epoca funzionanti, la vita di provincia lenta e monotona, l’estrema ripetitività delle giornate mi hanno spinto a evadere, a fuggire, e poiché per un bambino delle elementari è difficile farlo fisicamente, a meno che tu non sia un personaggio del libro Cuore, io fuggivo con la fantasia, e mi immergevo nella lettura dei libri di Salgari immaginando di essere io la Tigre della Malesia, e di vivere avventure meravigliose in meravigliosi luoghi. Scrivere è stata la naturale evoluzione.

2. Nell’arco della giornata qual è il momento che dedica alla scrittura?
In genere è di sera che sento il desiderio di sedermi al computer e “buttare là qualcosa”. A volte rimango a fissare il cursore che lampeggia sul monitor per decine di minuti, senza trovare le parole per esprimere al meglio quello che intendo comunicare, altre volte invece le dita scorrono senza fatica sulla tastiera, come se durante la giornata una parte del mio cervello avesse inconsciamente elaborato i concetti, che poi sgorgano spontaneamente. Quando ho scritto “Solo” ancora fumavo, così a fine serata sembrava che nel mio studietto fosse stata lanciata una bomba fumogena, e mia moglie era in grado di stabilire quanto tormentato fosse stato il parto della mia mente contando le sigarette che riempivano il posacenere.
 
3. Il suo autore contemporaneo preferito?
Senz’altro il compianto Umberto Eco che, anche se a volte poteva cadere un po’ nell’autocelebrazione, per me è stato uno dei migliori a cavallo dei due secoli. Un altro grande fra i grandi, di cui ho letto tutte le opere che sono riuscito a reperire, credo sia Bohumil Hrabal. È superfluo dire che il Tomasi di Lampedusa è stato il mio primo, grande e indimenticabile maestro, e il suo “Il Gattopardo”, che credo di aver letto almeno una ventina di volte, e ogni volta con rinnovato piacere, un mito da inseguire, con quel meraviglioso misto di ironia, sarcasmo, tristezza, nostalgia, rabbia, rassegnazione, abbandono, e il distaccato cinismo di coloro che vedono gli eventi come non modificabili, perché “possono solo illudersi di influire sul torrente delle sorti che invece fluisce per conto suo, in un'altra vallata”. Camilleri è una lettura piacevole e distensiva, così come De Giovanni, Manzini, Carrisi, Connelly, Patterson e tanti altri.
 
4. Perché è nata la sua opera?
Io ho sempre desiderato di saper dipingere, o comporre canzoni, insomma di creare qualcosa che fosse totalmente mio ed esprimesse il mio carattere e la mia personalità, ma purtroppo sono negato sia nel campo pittorico che in quello musicale, così sono diventato programmatore di computer, perché amavo creare le procedure e vederle prendere vita, crescere e diventare utili sotto le mie dita, tanto che al momento di consegnarle ai clienti provavo quasi una sensazione di perdita, come se un uccellino abbandonasse il nido. Quindi se volevo essere un creativo anche in una qualche forma d’arte, l’unica strada che mi rimaneva era la scrittura. L’idea per “Solo” è nata durante un ricevimento, di quelli col buffet interminabile, dove io non tocco cibo perché odio mangiare in piedi. Improvvisamente le stupide, vuote e inutili frasi che mi giungevano all’orecchio si sono fuse in un unico, fastidioso brusio, e io ho desiderato ardentemente che sparissero tutti. Immediatamente mi sono chiesto: “Ma se veramente sparissero tutti, tu che faresti?” e così è iniziata.
 
5. Quanto ha influito nella sua formazione letteraria il contesto sociale nel quale vive o ha vissuto?
Moltissimo, credo. Io sono nato nel 1954, e per molti anni le trasmissioni televisive iniziavano tardi e finivano presto, così ho cominciato a leggere qualcosa, inizialmente i classici libri di favole, Pinocchio, Cuore, Salgari, ma poiché ero un divoratore, presto esaurii la sezione infantile delle nutrite librerie dei miei genitori e passai oltre. Ricordo che il primo libro più impegnativo che lessi fu “La cittadella”, perché ne stavano trasmettendo la versione televisiva con Alberto Lupo. Il passo successivo fu “I miserabili”, e non mi sono più fermato. Questa mia passione mi ha aiutato anche al ginnasio e al liceo, dove ai temi prendevo ottimi voti. Anche mia madre, insegnante di lettere, mi ha sempre spinto verso la lettura, mentre mio padre farmacista mi ha inculcato la curiosità e l’interesse per gli argomenti scientifici.
 
6. Scrivere è una evasione dalla realtà o un modo per raccontare la realtà?
Non lo so. Forse è un tentativo di raccontare la realtà come io vorrei che fosse.
 
7. Quanto di lei c’è in ciò che ha scritto?
Molto. Il protagonista sono io, con tutti i miei difetti e i pochi pregi, solitario, poco incline ai rapporti umani, osservatore, disincantato, organizzatore, impulsivo, imprudente, insofferente. Credo di aver fatto come quegli attori che si trovano a interpretare un personaggio uguale a loro: non devono recitare, basta che siano sé stessi. Così io non ho avuto bisogno di inventare quando ho scritto di Francesco. (Ciccio per gli amici).
 
8. C’è qualcuno che si è rilevato fondamentale per la stesura della sua opera?
Mia moglie senz’altro. Mi ha molto incoraggiato nei miei tentativi e spinto a non desistere nei momenti di sconforto, invitandomi sempre a sedere al computer e riprovare con pazienza. Solo quando ho dovuto quasi costringerla a leggere il mio romanzo, ho capito che in realtà se scrivevo me ne stavo calmo fuori dai piedi e non sporcavo e affumicavo il resto della casa.
 
9. A chi ha fatto leggere per primo il romanzo?
Al mio vecchio amico, e all’epoca socio in affari, Prisco. Il fratello invece si è sempre rifiutato di leggerlo. Quando mi sono reso conto che Prisco, che non è franco di cerimonie, aveva apprezzato il mio romanzo, l’ho dato in pasto a volenterosi amici e parenti, sempre con ottimi risultati.
 
10. Secondo lei il futuro della scrittura è l’ebook?
Io credo che le due forme, cartacea e digitale, siano destinate a convivere, perché se è vero che oggi, grazie a tablet e apparecchi dedicati, siamo in grado di portarci in tasca librerie di migliaia di volumi che possiamo sfogliare in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, è pur vero che sopravvivono sempre moltissimi lettori “classici”, che per nulla al mondo rinuncerebbero al piacere di sfogliare un libro e sentire la carta sotto i polpastrelli e il rumore delle pagine. Io credo che l’ebook sia certamente il futuro, e anche io ne faccio uso, ma una nicchia di giustamente nostalgici ci sarà sempre.
 
11. Cosa ne pensa della nuova frontiera rappresentata dall’audiolibro?
Non so che dirle. Credo che sia una grande conquista, soprattutto per i non vedenti, e anche io ho avuto modo di apprezzarlo spesso, tanto che proprio grazie a un audiolibro trasmesso da Radio 3 ho scoperto quello che è poi diventato uno dei miei autori preferiti, ascoltando “Ho servito il re d’Inghilterra”, di Bohumil Hrabal. Buono, cattivo? Non lo so. Certo la lettura è un’altra cosa, e ti permette anche di tornare sui tuoi passi e rileggere un paragrafo di cui inizialmente non avevi apprezzato appieno il senso, ma l’audiolibro, sollevandoti da tutte le piccole scomodità della lettura, come la luce adatta, l’inclinazione del libro, le braccia indolenzite, gli occhiali da lettura, ti permette una maggiore concentrazione sul testo, e se poi a leggere è un bravo attore o un letterato, o comunque una persona che ama quello che sta facendo, allora l’audiolibro è il top.
 

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Mercoledì, 22 Agosto 2018 | di @BookSprint Edizioni

1 COMMENTO

  • Link al commento raimondo inviato da raimondo

    Complimenti Francesco

    Mercoledì, 22 Agosto 2018 16:13

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