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08 Mag
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Intervista all'autore - Francesco Colangelo

1. Che cos’è per Lei scrivere, quali emozioni prova?

Scrivere, in generale, per me significa innanzitutto fare una sorta di autoterapia in quanto mi fa stare bene e, questo, è molto importante. Che poi allo scrivere per me stesso si possa aggiungere in qualche modo anche lo scrivere per gli altri, per agire con la parola nel mondo, è non affatto cosa secondaria ma segna di fatto un secondo livello di necessità. Quando mi cimento nella scrittura faccio i conti con me stesso, mi muovo nel labirinto della mia anima alla ricerca di una "verità-per-me".

Mi sembra di passeggiare in silenzio con raccolto coraggio lungo il viale dell’imbarazzante pagina bianca, guidato da non so bene quale voce o dèmone, rapito in un’estatica ispirazione nel tentativo subconscio di costruire probabilmente case e palazzi con le mie parole, cercando di dare forma e sostanza al flusso di sensazioni che avverto muoversi come in un vortice al mio interno. Come anticipavo più sopra, scrivere per me, oltre a ricerca interiore, al mettersi a nudo e al fantasticare ad occhi aperti, può diventare anche denunciare i mali del mondo, polemizzare, voler comunicare in modo libero ed “engagé” senza peli sulla lingua, come a dire, tenere come modello prima un Sant’Agostino/Rousseau/Proust e poi anche un Nietzsche/Sartre.



2. Quanto della sua vita reale è presente in questo libro?

In questo mio primo libro (auspichiamo sia il primo di una non troppo lunga serie...), edito dalla casa editrice BookSprint Edizioni, c’è molto della mia vita reale, nel senso che le pagine consegnate per sempre al lettore ideale ne rappresentano un fedele specchio. Il libro, infatti, si presenta esplicitamente come un diario, come un’autobiografia non solo intellettuale. Del resto, tutto questo viene abbastanza sottolineato nella Prefazione, nella quale si fa riferimento al pensatore danese Soren Kierkegaard e all’istanza del singolo, quindi all’“universale singolare”, come avrebbe potuto suggerirci il grande esistenzialista francese della rive gauche, J.-P. Sartre. Scrivere, prendendo programmaticamente spunto dalle più significative vicende e dai fatti emozionali della propria vita privata, non vuole essere per me, immaturo o maturo che sia, atto di spudoratezza. Si tratta piuttosto di mettersi nella condizione “esistenziale” di poter parlare di questioni dalla valenza universale con maggiore cognizione di causa, sforzandosi di passare per induzione dal vissuto particolare proprio del singolo individuo (che io sono, in quanto "esserci" pensante e soggetto capace di emozioni) all’universale, quindi dalle tracce di un vissuto personale al sartriano universale singolare, come già detto.



3. Riassuma in poche parole cosa ha significato per Lei scrivere quest’opera.

Ribadisco ancora una volta che scrivere “Sul fiore del bene e altrove” ha significato per me tenere una sorta di diario. Il libro altro non è che il risultato di circa vent’anni di appunti, di studio, di libera ricerca; di questo lungo periodo esso reca in sé le tracce, tutto ciò che rimane, che ha la forza di resistere all’oblìo o alle minacce del fantasma del nulla, dopo il naturale ed ineluttabile passaggio della ruota del tempo. Mi spiego meglio. Non che nelle sue 250 pagine venga registrato tutto il percorso umano ed intellettuale fatto; vi si trovano semplicemente le orme di questo lungo percorso vissuto da pecora, da lupo, da cammello, da leone, da gatto o, più semplicemente, vissuto come giovane uomo pieno di domanda, di dubbio e di speranza.



4. La scelta del titolo è stata semplice o ha combattuto con se stesso per deciderlo tra varie alternative?

La scelta del titolo, devo dire, è stata semplice e fin troppo spontanea. In esso vi è un implicito e vago riferimento a “Les fleurs du mal” del grande poeta "maledetto" del Simbolismo francese, Charles Baudelaire, che qui preferisco non chiarire ulteriormente. All’inizio, quando il libro era allo stato embrionale in fase di gestazione, il mio diario è cresciuto col titolo provvisorio “Sul fiore del bene”, intendendo richiamarmi all’idea della giovinezza, alla privilegiata posizione dello stare sulla corolla di un fiore per cercare di vedere le cose con un certo distacco ma con uno sguardo innocente e senza pregiudizi, schierandomi tuttavia manicheisticamente dalla parte del bene, per di più pensando illusoriamente ed ingenuamente che ciò fosse possibile. Col passare degli anni, il mio percorso è di fatto diventato più tortuoso e tutto è stato dolorosamente e criticamente rimesso in discussione. Per questo motivo, in un secondo momento, mi è parso doveroso, per onestà intellettuale, aggiungere al titolo originario la parte finale “e altrove”, non affatto, quindi, per dare al lavoro un alone di misteriosità o per il mero gusto dell’ermetico e/o dell’enigmatico, come pure, a tutta prima, potrebbe sembrare.



5. In un’ipotetica isola deserta, quale libro vorrebbe con sé? O quale scrittore? Perché?

A questa domanda, adesso, su due piedi, non saprei proprio rispondere. Non amo le classifiche, nemmeno quelle che riguardano i libri o gli scrittori. Affermo da sempre che ogni libro (dal latino “liber”, che vuol dire anche “libero”) è una manifestazione della libertà dell’uomo e costituisce perciò una goccia preziosa nell’infinito oceano della cultura. Poi ci si può anche dilettare nel distinguere, nelle vesti di sedicenti critici letterari, il capolavoro dalla semplice carta sporca d’inchiostro destinata al macero, ma questo lavoro di eventuale cernita non mi appartiene. Mi risulta assai difficile, se non impossibile, scegliere un libro in particolare da portarmi dietro in un’isola deserta. Come sceglierlo? In base a cosa? È evidente che sceglierne uno sarebbe un atto di ingiustizia nei confronti di tanti altri, magari non presi in considerazione solo perché ancora non letti… Tuttavia, il primo che in questo momento (ci saranno pure delle ragioni più o meno inconsce) mi viene in mente è “La luna e i falò” di Cesare Pavese. Questa mia provvisoria scelta si giustifica forse per una consonanza di spirito col suo grande autore, o forse perché ha caratterizzato un periodo decisivo della mia adolescenza.



6. E-book o cartaceo?

Mi schiero in modo chiaro ed inequivocabile dalla parte del libro cartaceo, a prescindere dal tipo di carta delle sue pagine. Non condanno in toto la tecnologia, ma penso che se ne debba fare un uso più intelligente. Il supporto dell'e-book è un surrogato del libro tradizionale, non un degno sostituto. Non saprei immaginare come sarebbe tuffarsi nella lettura senza il piacere del profumo (più o meno gradevole) delle sue pagine, senza un segnalibro che segni i nostri passi tra le parole... Ma sono preoccupato per il futuro. Anche penna e calamaio non si usano più, anche la Olivetti di fallaciana e di montanelliana memoria è stata sostituita dai computers con la videoscrittura. Se dipendesse da me, soltanto da me, insegnerei ai giovani, alle future generazioni di non abbandonare mai completamente il libro di carta.



7. Quando e perché ha deciso di intraprendere la carriera di scrittore?

In realtà di essere scrittore, filosofo o poeta, filosofo, romanziere e poeta, polemista, novelliere, ecc…, non lo si decide. Nemmeno io l’ho deciso, nemmeno io ho di punto in bianco deciso di fare lo “scrittore”. Ci si trova ad esserlo, ecco tutto. Lo si è ad un certo punto, malgrado le forze che pure agiscono in noi per far sì che non lo siamo. Essere scrittore nonostante tutto, malgrado la “noluntas” a non esserlo. Probabilmente, gettato in un certo spazio-tempo, mi sono ritrovato a seguire il consiglio, o meglio l’esortazione di Nietzsche che tuona così: “Divieni ciò che (già da sempre) sei!”. Seguendo la via dell’autenticità, ho cercato di essere fedele a me stesso, ho fatto una cosa che ritenevo doveroso fare, con piena consapevolezza e spontaneità. Se poi nella mia vita scriverò ancora poesie, saggi e libri vari, solo Dio lo sa.



8. Come nasce l’idea di questo libro? Ci racconterebbe un aneddoto legato alla scrittura di questo romanzo?

Da studente pensavo di pubblicare un giorno una raccolta di poesie, alcune delle quali già pubblicate su giornalino d’istituto del mio liceo. In seguito, col passare degli anni, questo primo abbozzo di lavoro si è trasformato in altra cosa, assomigliando più ad una autobiografia, con meno fantasia e con più aride consapevolezze. Un aneddoto legato alla scrittura di questo libro? Non saprei… Per ciò che concerne, invece, la scrittura in generale un aneddoto credo di averlo. Da adolescente - ricordo – una volta (per questa trasferta mi persi lo storico concertone dei Nomadi al paese, con il mitico Augusto D'Aolio, settembre 1991) andai per un periodo da mio padre in quel di Milano, dove lui (precario lontano dalla famiglia per lavoro) insegnava Ed. Artistica in una scuola media. Portai con me un taccuino nell’intento di raccontare le varie impressioni di questa mia nuova esperienza, appuntandomi a caldo le più significative differenze tra la vita “paesana” e quella della grande città. Ecco, ricordare questi primi spontanei tentativi oggi rinforza in me quella naturale propensione alla riflessione e allo scrivere, probabilmente già presente in me, tra le migliori attitudini, sin dai tempi delle elementari.



9. Cosa si prova a vedere il proprio lavoro prendere corpo e diventare un libro?

Sicuramente è una bella emozione. Si prova un senso di soddisfazione sì, ma anche altro, per il fatto che non è semplice tradursi in parole, parole che restano scritte lì, nero su bianco, e sapere che acquisteranno vita propria a prescindere dal prosieguo della vita dell'autore. Che Dio me la mandi buona!



10. Chi è stata la prima persona che ha letto il suo libro?

Essendo stato scritto in un periodo di tempo abbastanza lungo, le varie parti sono state visionate da diverse persone amiche e in diversi momenti. Tuttavia, i primi a leggerlo nella sua stesura definitiva, sono stati i miei genitori, Rosa ed Angelo, ai quali del resto il libro è amorevolmente dedicato.



11. Cosa ne pensa della nuova frontiera rappresentata dall’audiolibro?

Penso che possa essere una cosa utile, perché grazie all'audiolibro si può ascoltare la "voce" del libro mentre si fa altro, oppure può essere utile per i non-vedenti, per una persona malata costretta a letto, ecc... ma resto sempre attaccato alla versione cartacea, che per me deve restare in prima linea. Quando si legge, ci si raccoglie e si fa funzionare la mente a 360 gradi. Che senso ha ascoltare un romanzo come "I miserabili" di Victor Hugo mentre si fa jogging?... La lettura, inoltre, deve essere prima un fatto individuale e poi, magari, anche condiviso. Per me viene prima il silente incontro individuale con l'autore attraverso la parola scritta, e poi la lettura ad alta voce in un gruppo di persone prescelte (per la affinità di interessi e di sensibilità) o l'ascolto di un attore che recita poesie di fronte ad un gruppo-uditorio. Non si devono necessariamente e a tutti i costi scegliere quelle modalità di fruizione della cultura che implicano meno sforzo ed un minor impegno. I risultati sono sempre scarsi laddove manca il serio lavoro della mente. Forse quello che sto qui affermando potrebbe non lusingare l'editore, ma è giusto dire quello che penso in merito all'audiolettura e a consimili cose. A tanti sembrerò in questo antiquato, tradizionalista e conservatore (sono fiero di non aver ancora acquistato uno smartphone!) ma questo è solo il mio (modesto?) parere.

 

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Venerdì, 08 Maggio 2015 | di @BookSprint Edizioni