Che cos’è per Lei scrivere, quali emozioni prova?
Scrivere mi ha tenuta viva.
Nei giorni bui, quando sembrava crollasse tutto, ho preso una penna e ho sputato fuori il dolore.
Ho scritto tra una notte insonne e una febbre da calmare, col cuore a pezzi ma le mani ferme.
Scrivere è stato il mio sfogo, la mia cura, la mia forza.
Mi sono salvata scrivendo.
Ho scritto nella terapia intensiva neonatale, accanto a mia figlia, per calmare la sofferenza e credere che il futuro, quello che adesso è un oggi, fosse possibile.
Ho scritto da bambina, per tirare fuori la rabbia, per non pensare al dolore fisico che mi lacerava l’anima… o i piedi.
Scrivere è stato il mio urlo silenzioso. Il mio modo di restare in piedi quando tutto tremava.
Scrivere, per me, è resistere.
Quanto della sua vita reale è presente in questo libro?
Tracce di me è la mia vita nuda, raccontata senza veli. C’è l’infanzia fragile, segnata da dolori fisici e assenze emotive, da silenzi che parlano più delle parole. Ci sono le mancanze, quelle che scavano dentro e che, anche se cresci, non smettono mai di farti compagnia.
Ci sono le persone che porto nel cuore: mia zia Alessia, il cui nome oggi porto come un’eredità d’amore; Eleonora, la mia migliore amica, una sorella dell’anima, che non c’è più ma vive nelle mie parole; e c’è Francesca, mia figlia, con il nostro cammino prematuro che ci ha rese forti insieme, unite da un filo invisibile fatto di paura, tenacia e amore.
Ci sono anche gli spezzoni di famiglia, i miei genitori ,le radici: Terracina, la mia terra e poi Centola, la città che mi ha accolta, dove ho ritrovato un senso di casa, dove ho piantato nuove radici.
C’è tutta la mia vita, ma soprattutto c’è ciò che mi ha segnata. Perché anche se non sono più una bambina, certe ferite continuano a camminare con me. E scrivere è il mio modo per tenerle per mano senza lasciarle vincere.
Riassuma in poche parole cosa ha significato per Lei scrivere quest’opera.
Scrivere Tracce di me è stato come darmi un abbraccio di consolazione, quell’abbraccio che non ho mai cercato né voluto da nessuno. È stato il mio modo di dire basta alla lotta continua con i miei sentimenti contrastanti.
Mi sono arresa, ma in senso buono. Ho deciso di concedermi una tregua, di fermarmi e ascoltarmi. Ho scelto di esternare ciò che provo, ed è stato difficile, perché per me esprimere emozioni è sempre stato un peso.
Ho passato anni a nascondermi dietro il ferro di una maschera, a tenere tutto dentro per paura di essere giudicata, fraintesa, ferita. Ho sempre avuto il terrore di dire la mia, di espormi davvero.
Oggi, invece, posso dire che scrivere quest’opera è stato un urlo liberatorio. Un atto di coraggio verso me stessa, un gesto d’amore verso quella parte di me che meritava di essere ascoltata.
Tracce di me non è solo un libro: è la mia verità, il mio sfogo, la mia rinascita.
La scelta del titolo è stata semplice o ha combattuto con sé stessa per deciderlo tra varie alternative?
Il titolo è stata la prima cosa che ho scelto. Prima ancora di scrivere, sapevo che si sarebbe chiamato Tracce di me.
Non ho combattuto con altre alternative, perché sentivo dentro che era quello giusto. Volevo lasciare qualcosa di mio, un segno, una scia che restasse. Un po’ per me, per riconciliarmi con il mio passato, ma soprattutto per Francesca, mia figlia.
Perché un giorno, leggendo queste pagine, possa conoscere davvero chi è sua madre, da dove viene, cosa ha vissuto. Ma soprattutto per dirle quanto la amo, e per farle leggere con il cuore tra le righe tutto l’amore che provo per lei.
È un titolo che racchiude tutto: il dolore, la rinascita, le radici, l’amore, la memoria. È la prova che io sono passata di qui, e che non ho avuto più paura di raccontarmi.
Perché sì, quella paura l’ho avuta per molto tempo. Ma grazie a questo libro mi sono aperta e ho imparato a vincerla. E oggi, finalmente, posso dire di essermi data voce.
In un’ipotetica isola deserta, quale libro vorrebbe con sé? O quale scrittore? Perché?
Porterei con me Storie di ordinaria follia di Charles Bukowski.
Perché tra quelle pagine ho trovato una scrittura nuda, cruda, sincera. Mi ha insegnato che si può dire tutto, anche il peggio, senza vergognarsene. Che si può essere feriti, sporchi di vita, ma ancora capaci di urlare la propria verità. È un libro che mi ha fatto sentire meno sola, che ha dato voce a ciò che io stessa non riuscivo a dire.
E insieme a quello, porterei anche Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach. Due mondi opposti, ma entrambi veri: uno mi fa toccare il fondo, l’altro mi fa volare. Uno mi ricorda da dove vengo, l’altro dove voglio andare.
Su quell’isola deserta, tra la disperazione di Bukowski e la speranza di Jonathan, troverei il modo di restare me stessa. Di scrivere, di resistere, e forse anche di guarire.
Ebook o cartaceo?
Per me, senza dubbio cartaceo. C’è qualcosa di speciale nel tenere un libro in mano, nel sentire il suo peso, nell’odore delle sue pagine quando invecchiano. Un ebook può essere comodo, ma il cartaceo ha una forza tutta sua: la libreria che arreda, che dà un senso di potenza intellettiva. È come quando devi fare una ricerca scolastica, girare e toccare le pagine di un’enciclopedia batte di gran lunga il movimento del dito su uno schermo.
Un libro cartaceo è qualcosa che resta, che si conserva, che si tramanda. È come una traccia tangibile di quello che abbiamo vissuto. Per questo motivo, Tracce di me è nato per essere letto fisicamente, per essere sentito. Ma non mi dispiace se dovesse esistere anche in digitale, poiché consente a più lettori di accedervi. Ma il cuore di un libro per me è sempre cartaceo.
Quando e perché ha deciso di intraprendere la carriera di scrittrice?
Il mio sogno di bambina era diventare scrittrice, ma l’ho tenuto chiuso in un cassetto per molto tempo. Ho scritto da quando ne ho memoria, ma Tracce di me non è la prima cosa che ho scritto, è solo la prima che ho deciso di pubblicare. Scrivere è sempre stata una necessità per me, un modo per dare voce ai miei pensieri e alle mie emozioni. Crescendo, mi sono resa conto che le parole erano l’unico strumento che avevo per raccontarmi davvero.
Per anni ho scritto per me stessa, nascondendo le mie storie, come se avessi paura di mostrarle al mondo. Solo quando ho sentito che era arrivato il momento giusto, ho deciso di non tenere più tutto dentro. Pubblicare Tracce di me è stato un passo importante, ma anche liberatorio. Non è stato tanto un percorso consapevole, quanto una necessità profonda di esprimere chi sono, di raccontare ciò che mi ha segnato, di condividere con gli altri una parte di me.
Come nasce l’idea di questo libro? Ci racconterebbe un aneddoto legato alla scrittura di questo romanzo?
L’idea di Tracce di me è nata in modo naturale, quasi spontaneo, come se fosse una parte di me che finalmente voleva essere raccontata. Scrivere di me stessa, dei miei ricordi, delle persone che mi hanno segnato, è stato un modo per fare pace con il mio passato e con il mio presente. Non volevo scrivere un libro, volevo scrivere una testimonianza, un percorso che raccontasse la mia vita, ma anche le sue pieghe più intime e dolorose.
Un aneddoto che mi viene in mente riguarda Francesca. Molte delle cose che ho scritto su di lei sono nate in un momento particolarmente intenso e doloroso della mia vita, quando lei era in terapia intensiva neonatale a Bayreuth, in Germania, dove è nata e dove le hanno salvato la vita. In quei giorni, tra le macchine che suonavano e le emozioni contrastanti, ho trovato un angolo di me stessa in cui scrivere.
Mi ricordo ancora quando, seduta accanto a lei, ho cominciato a scrivere, sentendo il bisogno di dare voce a tutto il mio amore, ma anche alla paura, alla speranza. Le pagine che ho scritto in quel periodo non sono solo il racconto di una madre che lotta per la vita della propria figlia, ma una riflessione su come la vita ci costringa a crescere in fretta, ad affrontare le sfide più grandi quando meno ce lo aspettiamo. Ogni parola che scrivevo in quei momenti era come una preghiera, un modo per sentirmi vicina a lei anche quando non potevo fare altro che guardarla lottare.
Cosa si prova a vedere il proprio lavoro prendere corpo e diventare un libro?
È un’emozione indescrivibile, un mix di incredulità e orgoglio. Vedere qualcosa che hai scritto con il cuore trasformarsi in un libro fisico, pronto per essere letto, è come vedere un pezzo di te stesso prendere vita. Da una parte c’è la soddisfazione di aver portato a termine un progetto che ti ha accompagnato a lungo, ma dall’altra una grande vulnerabilità, perché ti rendi conto che stai mettendo a disposizione una parte intima della tua vita. È liberatorio e spaventoso allo stesso tempo, ma è un’esperienza che ti cambia. È il momento in cui il sogno diventa realtà e il lavoro diventa tangibile, pronto per essere condiviso con gli altri.
Chi è stata la prima persona che ha letto il suo libro?
La prima è stata Valentina, mia cognata, che mi ha aiutata nei momenti in cui le emozioni prendevano il sopravvento, dandomi consigli preziosi...
Poi, Alessandro, il papà di mia sorella: è grazie a lui se oggi ho interessi, perché mi ha formata intellettualmente fin da bambina. Ha acceso in me il pensiero critico e la curiosità...
Ed infine, Lyana, un’amica con cui spesso ci confrontiamo proprio su ciò che ci appassiona: arte, letteratura, riflessioni profonde. Il suo punto di vista è sempre stimolante.
Cosa ne pensa della nuova frontiera rappresentata dall’audiolibro?
L’audiolibro è una frontiera che abbatterà molti muri, perché è uno strumento profondamente inclusivo, soprattutto per la scuola. Offre un’opportunità concreta a chi ha difficoltà di lettura, come i bambini con dislessia o altre difficoltà cognitive, permettendo loro di accedere alle storie e alla cultura in modo più diretto e comprensibile. Grazie a questa forma di lettura, molte barriere vengono superate, e la cultura diventa veramente accessibile a tutti. È un passo importante verso una società che riconosce e supporta le diversità, dando a ogni individuo la possibilità di crescere attraverso la lettura.
