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22 Mar
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Mary Pace: "Dovevo morire perché sapevo"

«Oggi tutti sanno che Mary Pace ha fatto la 007». Scrittrice con 13 libri all’attivo (di cui quattro usciti per BookSprint Edizioni), giornalista. Fino a qualche tempo fa, Mary Pace era solo questo, perché questo era dato sapere. «Poi è venuta fuori la questione Bin Laden, quindi ho dovuto dirlo: ho fatto parte dell’intelligence per parecchi anni». Mary Pace sapeva. Lo ha detto alle Iene, lo ha ribadito su Oggi. Un quadrato di trenta chilometri di lato nelle sterminate montagne del Pakistan. Siamo nel 2003 e lì c’è l’uomo più ricercato del mondo. Lo Sceicco del Terrore, la mente di Al Qaeda. Osama Bin Laden. Ma cominciamo dall’inizio.

«Sono stata reclutata che non avevo neppure 18 anni» ci spiega. «Ho cominciato nel ’62. Le donne non potevano essere ammesse nei corpi militari, e io dovevo essere per forza pagata in nero. Non è un mestiere semplice, perché non dà niente. Le vittorie e le azioni più pericolose possono essere gratificanti per chi opera in divisa, non così per chi fa lo spionaggio. Segreto è e segreto resta. È una cosa che si fa per passione. Economicamente non ne vale la pena».

Come e perché è stata scelta?«Vivevo in un paesino che non aveva sbocco, il boom era ancora lontano. Sono andata a Roma per incontrare un parlamentare che non conoscevo. Ho avuto la faccia tosta di dirgli “Mi serve un lavoro, mi dia un lavoro. Uno qualsiasi, purché riesca a guadagnare qualcosa”.Il caso ha voluto che questo parlamentare mi fissasse un appuntamento il giorno successivo con una persona a Montecitorio. All’appuntamento, dopo una lunga attesa, non ho incontrato il parlamentare cui mi ero rivolta, ma un’altra persona, di una certa età, un alto ufficiale. Dopo un interrogatorio di circa tre ore (chi ero, cosa stavo facendo, per chi votava la mia famiglia…), disse “Ti offrirò un lavoro”».

Chi era il parlamentare che le ha fissato l’incontro?«Non lo voglio dire. Ne avevo sentito parlare da un avvocato di Sgurgola, mio confinante. Ne parlava come una persona eccelsa, qualcuno che contasse. Lui si è dato da fare, mi ha dato una mano, e io ancora lo ringrazio ancora adesso».

Le dico una data, 2 maggio 2011. Dopo quasi dieci anni dall’attentato, Bin Laden viene catturato e ucciso. Giustizia è fatta, tutto e bene quel che finisce bene. O non è proprio così? «Assolutamente no. È stato un assassinio. E in ogni caso non l’hanno ucciso gli americani, non materialmente. Lo hanno ucciso dei mercenari, al soldo degli americani. I Navy SEALs non c’entrano niente. Quelli del Team Six, che sarebbero stati gli artefici della morte di Bin Laden, quelli che sono arrivati ad Abbottabad e hanno portato a termine L’Operazione Geronimo. Non è vero niente. Tant’è vero che sono tutti morti in un incidente d’elicottero, molto provvidenziale. Altrimenti si sarebbe scoperto che era tutta una sceneggiata. Certo Bin Laden è morto, ma non nell’abitazione che ci hanno fatto vedere. Aveva dei rifugi nelle grotte, nel quadrato di cui io ho dato le coordinate. Ogni sera ne cambiava una, proprio perché la Cia lo cercava. Ma Bin Laden era un agente Cia, che doveva addossarsi tutta la colpa delle torri gemelle. Ad un certo punto si è stancato di tuta questa storia, perché veniva braccato, perché c’erano delle persone che ci avevano creduto. E voleva parlare, dire la verità. L’America non glielo poteva permettere, e doveva assolutamente ucciderlo».

Perché sostiene che Bin Laden fosse un agente Cia?«Gli addetti ai lavori lo sanno. Chi fa dello spionaggio conosce gli altri agenti, c’è un contatto con l’intelligence degli altri paesi, almeno io ce li ho. Me li lasciò il mio maestro di strategia e tecnica militare, prima di moire. È lui che mi disse dov’era nascosto Bin Laden».

Lei lo ha detto già nel 2003, perché sapeva. Lo ha detto alla Digos, inizialmente. Che riscontro ha avuto? Qual è stata la loro reazione?«Niente. Zero. Ho chiamato la Digos, vennero due ispettori. Hanno fatto l’informativa immeditatamente, ma il Ministero dell’Interno l’ha ignorata. Gli dissi “Volete trovare Bin Laden? Vi do quattro località, che formano un quadrato di pochi chilometri”. Il Pakistan è grande cinque volte l’Italia. Io ho dato un quadrato di trenta chilometri. Lo poteva trovare anche un ragazzino. Lì le montagne sono aspre, non boschive come le nostre. Sono spoglie e rocciose. È facile individuare una persona, scoprire dove vive, dove fa rifornimenti. Con le mie indicazioni non era difficile. Senza di queste, girare tutto il Pakistan diventava un’impresa. Gli americani credevano che Bin Laden fosse in Afghanistan; io invece sostenevo che Bin Laden era protetto dall’ISI (Inter-Services Intelligence of Pakistan), i servizi segreti pakistani. Il popolo pakistano è stato sempre stato dalla parte di Bin Laden, proprio mentre l’America foraggiava il Pakistan – che assurdità: l’America mandava soldi al Pakistan, mentre il Pakistan proteggeva Bin Laden.Lui è stato membro della Cia. Si è fatto notare in occasione della guerra tra afgani e russi. L’allora Unione Sovietica si dovette ritirare per la sconfitta. In quel conflitto si mise in luce per la sua intelligenza, per il suo carisma. Bin Laden non era un uomo comune, un talebano qualunque; era di tutt’altra pasta. Gli americani lo vollero conoscere perché aveva dato un apporto non indifferente alla sconfitta dei russi. Lui aveva amicizia con la famiglia di Bush; il padre di Bin Laden era molto amico della famiglia Bush, avevano degli interessi in comune, in America.Non si trattava di una conoscenza superficiale, ma di un legame profondo. Sembra una cosa assurda, eppure e così.Noi del mestiere sapevamo che Bin Laden era agente della Cia».

Lei dice che non era lui il responsabile dell’attentato. Perché allora ha rivelato la sua posizione?«Eravamo convinti, a quel tempo, nel periodo caldo – e credo che tutti ne fossero convinti – che Bin Laden fosse il responsabile dell’attentato alle torri gemelle. Nel 2003 diedi questa indicazione, ma non speravo assolutamente che la ricompensa di cui parlava Bush fosse vera. Non l’ho fatto per i soldi. Conosco molto bene gli americani: sono degli sbruffoni, non mantengono mai la parola data. Ma il tempo passava, il Ministero dell’Interno non mi dava nessuna risposta. Nessuno è venuto da me per sapere da chi avessi avuto la soffiata, chi mi avesse consigliato di fare una cosa del genere, o se magari l’avessi solo sognato. Nessuno. Io volevo dare la gloria agli italiani. Anche se le operazioni in Pakistan sarebbero stata condotte dagli americani, la gloria sarebbe venuta anche a noi. Questo non è successo, perché gli italiani non hanno creduto, mi hanno ignorata, o forse sono stati dati degli ordini sbagliati… non lo so, ancora non capisco… Così mi sono detta “Non mi credete? Vediamo se ci credono gli americani, così se ne prenderanno tutto il merito”».

Mary Pace si ferma. Io rispetto la pausa e attendo la sua voce. Inconfondibile. Decisa. «Le cose sono andate avanti. Sono passati degli anni, e io ho cominciato ad avere i miei dubbi. Grazie alle mie conoscenze ho capito che era tutto un bluff. Ma ormai lo avevo detto, e per dimostrare che quel he avevo detto nel 2003 era la verità, mi sono messa in contatto con la Cia, e ho dato loro l’informazione».

Ha parlato con un certo Randy, sia via email che via telefono. «Ho parlato con lui molte volte. A ottobre ci siamo salutati. Pensavo che la mia corrispondenza con Randy continuasse. Io gli avevo dato tutto. Invece non si è più fatto sentire. A quell’indirizzo email non rispondeva più nessuno».

Quindi, dopo una fitta corrispondenza, gli ha rivelato il luogo dove era nascosto Bin Laden. Lui ha fatto un commento del tipo “straordinario, fantastico!”, ma non si è fatto più vivo. «Quando ho visto che l’America non mi prendeva in considerazione, ignorandomi del tutto, sono andata dal mio avvocato, e gli ho detto “Questi sono i miei documenti, io voglio la taglia”. A questo punto la voglio. Se mi avessero chiamata e mi avessero detto “Senti, noi abbiamo promesso 25 milioni di dollari, ma non possiamo darti l’intera cifra – so che se la passano male – però ti diamo una ricompensa, perché sei stata brava”, io sarei stata zitta, perché non sono venale. Ho già detto in diverse occasioni che con la taglia voglio costruire una clinica, e infatti questo è il mio obiettivo».

Uno scopo nobile, che l’ex 007 italiana aveva reso noto di fronte a tutta la nazione, a LeIene. Mary Pace prosegue, rivelandoci qualcosa di sconcertante. «Ma poco dopo sono io ad ammalarmi e ad aver bisogno di essere salvata. Sono stata dieci giorni in coma, ma non mi hanno mai fatto una diagnosi precisa. Io non ricordo niente. All’improvviso sono andata in coma. Mi sentivo un po’ strana. Mia figlia è un’infermiera, si è accorta che qualcosa non andava; quando ha visto che io non parlavo più, mi ha ricoverata con il codice rosso.Il due maggio, quando ho rischiato la vita, era il giorno in cui veniva ucciso Bin Laden. Quindi io dovevo morire. Non ricordo neppure quello che mi è successo il primo maggio.Stavo bene, ma in casa mia non c’era nessuno, sono stata tutto il giorno sola. Ma non ricordo niente di quel giorno. La mia amnesia è retroattiva.Inoltre c’è la mancanza di un esame tossicologico immediato, sollecitato dei medici e avvenuto quando ormai era troppo tardi, e qualsiasi traccia di qualsiasi cosa sarebbe scomparsa; senza contare che oggi ci sono sostanze che scompaiono nel giro di un’ora».

Sta cercando di dirmi che qualcuno ha tentato di ucciderla?«». Ha capito chi?«No, altrimenti non sarebbe più in vita. Ho qualche sospetto, ma non posso puntare il dito contro nessuno. Perché non ricordo. Non so niente, sono nel buio completo. Ho perso quei giorni della mia vita» Secondo lei potrebbe essere stato qualcuno della Cia?«Non voglio pronunciarmi. Ma escludo che sia stato qualche islamico fanatico di Al Qaeda. Lo escludo nella maniera più assoluta. So come opera Al Quada, non userebbe mai dei metodi così sofisticati. Magari avrebbe mandato una donna a spararmi, magari si sarebbe fatta saltare insieme a me».

Chi è il responsabile dell’attentato alle torri gemelle?«Il governo americano». Perché dice questo? «È chiarissimo. Loro ce l’hanno per abitudine. Quando vogliono fare la guerra, attaccare qualcuno, devono creare un incidente. Lo hanno fatto col Vietnam, con Saddam Hussein, in Afghanistan…» Certamente è più facile avere il consenso se c’è un attacco dall’esterno. E se non c’è, lo creano loro? «Certamente. È così. Loro debbono provocare, così possono rispondere, e rispondono in modo massiccio. Bin Laden non è certo un angioletto, però, per quanto riguarda le torri gemelle, non ha responsabilità. Anche perché Mohamed Atta, il presunto pilota a capo degli attacchi alle torri gemelle, è stato visto a Madrid tre anni fa. Ho lavorato anche con agenzie spagnole, e ho ancora dei contatti. È stato visto in Spagna da una persona che lo conosce». Quindi non è morto da kamikaze nell’attentato? «Assolutamente no. Immagini tutti i detriti scaturiti dal crollo delle torri gemelle – cemento, ferro, vetri –; il passaporto di Mohamed Atta l’hanno trovato in bella vista». Quindi una cosa quantomeno poco probabile trovare un passaporto integro e in vista in quell’inferno che c’era…«Gli americani saranno bravissimi a fare film, però a volte si perdono qualche dettaglio…».

Lo scopo vero delle operazioni in Afghanistan qual era? «Il fattore economico. L’Afghanistan è un paese ricco, specialmente nel sottosuolo, e l’America non stava attraversando un buon periodo. La guerra ha dato loro una possibilità per cercare di rimettersi in carreggiata. Inoltre l’Afghanistan è il maggiore esportatore di oppio. Dentro le bare dei soldati americani, se ne apre una a caso, non ci trova il cadavere del soldato, che è rimasto lì dove ha combattuto. Sono piene zeppe di oppio». Questo lo sa in base alle sue conoscenze? «Sì. È una notizia attendibilissima».

Mi permetta di chiederle ancora una cosa. Lei cosa chiede oggi? E soprattutto, ha paura?«Non sono mai stata un tipo pauroso, altrimenti non avrei fatto il lavoro che ho fatto.Paura no, però prendo le mie precauzioni. Sono stata all’altro mondo, e sono ritornata. E oggi più che mai io non mollerò, perché l’America dovrà capire che ha a che fare con un osso duro. Voglio i 25 milioni di dollari, perché dovrò fare delle opere di bene. Io vivo con la mia pensione, e sono a posto così, i soldi non mi servono. Però debbo costruire una clinica, e portare avanti altre iniziative a fin di bene.Quindi non mollo. I soldi mi spettano, e io non mollerò mai. Ho ragione, ho tutte le carte in regola, sarei una stupida a mollare perché mi arriva una minaccia. No, assolutamente. Finché ho vita, combatto».

Chi conosce Mary Pace sa che lei è una donna che non scherza. Continuerà la sua battaglia fino alla fine. Mentre le sue rivelazioni restano – per ora – senza risposta, in attesa.

 

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Lunedì, 24 Marzo 2014 | di @BookSprint Edizioni